Purple Rain – Simone N1G4
Pensando all’estate del 1986, il mio ricordo vola a Parade, il disco della scoperta di Prince. Quell’estate un enigmatico e misterioso cantante con la voce acuta, che ballava e cantava circondato da bellissime ragazze, era diventato inaspettatamente il mio punto di riferimento, una legittima alternativa alla musica ordinaria che abitualmente ascoltavo. Da una scoperta totalmente casuale, era iniziato il mio avvicinamento alla musica black, un termine troppo generico per descrivere tutto ciò che rappresentava quella nuova musica: funk, soul, blues e R&B senza dimenticare l’HipHop e tutti i suoi elementi.
Quell’estate, a chi mi domandava qual era il mio cantante preferito, orgogliosamente rispondevo con il nome di Prince. Pronunciavo quella parola come se fosse una formula magica capace di evocare un incantesimo per trasformare un giovane adolescente in un esperto critico musicale. Quel giorno però, replicando ad alcuni ragazzi poco più grandi di me, le cose cambiarono repentinamente. “No, non ci credo. Il tuo cantante preferito è il grande Prince, quello di Purple Rain”. La magia sprigionata dalla mia risposta rimbalzò inerte contro quel titolo: Purple Rain. Rimasi un attimo perplesso e per non dimostrare ignoranza risposi con un cordiale, “Si proprio lui, giusto”.
La pioggia viola. Di che cosa parlavano? Prince aveva forse pubblicato un nuovo disco senza che io ne sapessi nulla? Ai tempi non c’era internet o Spotify. Per recuperare delle informazioni bisognava uscire di casa ed andare in un negozio di dischi. Un paio di giorni dopo ero alla Casa del Disco di Como, negozio di fiducia, dove trovai il tanto immaginato Purple Rain. Di corsa a casa. Stereo acceso con il piatto che girava ed il fruscio della puntina sul vinile. Quello che stavo ascoltando non poteva essere Prince. Lui era quello con la chitarra funk di “Kiss”, quello che suonava il pianoforte in “Sometimes It Snows in April” o che invitava a fare festa con “Girls & Boys”. Per me tutto il mondo di Prince era racchiuso in quelle quattro note colorate di bianco e di nero, come la copertina di Parade. Mi sbagliavo perché improvvisamente tutto cambiò, tingendosi di un intenso colore viola.
Canzone dopo canzone, ascolto dopo ascolto, Purple Rain mi conquistò, catturando tutta la mia attenzione ed il mio desiderio di musica. Una conseguenza all’invito e al grido rock liberatorio di “Let’s Go Crazy”, ai morbidi sonagli di “Take Me With U”, alla perversione di “Darling Nikki”, alla psichedelia di “When Doves Cry”, all’energia di “I Would Die 4 U” e “Baby I’m a Star” sino ad arrivare alla title-track, capolavoro che raccoglie tutte queste caratteristiche e le amplifica attraverso una chitarra suonata come la suonerebbe il miglior Hendrix. Senza dimenticare quella che considero tuttora la più bella poesia di Prince, “The Beautiful Ones” dove la melodia futuristica che fa da intro, si trasforma in una ballata soul-pop con la quale Prince sprigiona sentimenti e sofferenze. La sua voce inizialmente rallentata si trasforma, via via che la canzone prosegue, in un grido di gelosia. Una dichiarazione d’amore che nel contesto del film, interpretata di fronte all’amata Apollonia, acquista completezza e totalità. Non sapevo esattamente cosa dicesse nelle sue canzoni. Per me l’inglese era (ed ancora un po’ lo è) quello della scuola. Solo dopo, testi alla mano, capii ed apprezzai ancora di più questo disco. Gli argomenti erano e sono sempre quelli: amore, amicizia, odio, ma la capacità di rappresentarli con la sua caleidoscopica genialità, fanno di questo disco una pietra angolare della musica pop. Difficilmente ho ritrovato in altri suoi album, Sign O The Times a parte, questa maturità e molteplicità di generi. Arte immortale che rimarrà per sempre.
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Purple Rain – Fabio Negri
Purple Rain. Uno dei dischi, per me, da isola deserta. Per un sacco di motivi che sono già raccontati più volte – sulla rete, nei libri, sui giornali. E per qualcuno in più.
Quelli dei dettagli personali. Di piccoli momenti, anche scollegati tra di loro, che iniziano così.
Quarta superiore, Autunno 1984. Il Giugno precedente questo disco esce negli Stati Uniti e onestamente non ricordo quando arrivarono le prime copie non di importazione in Italia.
Ricordo però che l’anno scolastico era iniziato, che Prince per me prima di questo era qualche canzone sparsa come ‘I Wanna Be Your Lover’ che passavano alla radio e che mi dicevano si ballasse nelle discoteche “serie”.
Probabilmente fu la moto. O quel vinile porpora che il mio negozio di dischi di fiducia di allora espose in vetrina. O forse fu l’attacco di ‘Let’s Go Crazy’ o la prospettiva strana di ‘When Doves Cry’ che da qualche tempo faceva capolino in alcune selezioni musicali di frontiera.
Forse però fu più il fatto che studiare era un obbligo, da settembre a giugno, e (alcuni di) noi usavamo trovarci per unire l’utile al dilettevole: chi portava i libri e chi i dischi da ascoltare.
Fra un’equazione e una prosa di Dante c’era Prince, spesso, quell’anno. Poesia e tecnica. Giù dai suoni nuovissimi che arrivavano fino al sentimento struggente di ‘Purple Rain’, senza conoscere il film (ancora), senza capire esattamente che la musica stava per essere stravolta e stava crescendo, noi giovinastri più interessati alla musica che ai libri di testo eravamo testimoni inconsapevoli di una rivoluzione che non era solo nel nome della band che accompagnava questo piccoletto su una moto, ma sarebbe stato molto di più.
Poi, soltanto dopo, è arrivato il film. Al cinema, in una piccola rassegna, perché non venne programmato subito nelle città di provincia, ma solo dopo gli Oscar e all’interno di una sorta di festival di film musicali che occupò un mese due volte la settimana. Una manciata di titoli, fra i quali ‘Purple Rain’.
Questo lo scenario in cui ho incontrato e maturato Purple Rain, in cui Prince è entrato sotto pelle, piano piano e senza troppo clamore, restandoci da allora e con questo disco in particolare per essere una compagnia costante (anche se non continuativa) dei miei ascolti.
Oggi resta qualche ricordo, ma ogni volta che appoggio la puntina sul lato A e parte ‘Let’s Go Crazy’ è sempre un momento che insieme al passato porta con sé la freschezza del presente. A differenza di tanti dischi che risentono inevitabilmente dei fattori del tempo, questo per me non ha una collocazione temporale nel passato. E’ sempre parte del presente, dell’attimo in cui suona ancora una volta, dell’attimo in cui quella puntina passa sui graffi, su tutti i momenti in cui è passata di lì dal 1984, da tutti i momenti in cui ci si è cavati gli occhi per leggere quei testi scritti in viola sul riflesso dell’acqua nella copertina interna, è ancora lì.
E quel suo funk, quel suo rock, quel “pop”, quella sua elettronica, tutto quel maestoso riassunto di arte, talento e meraviglia sono parte di un eterno presente, accarezzato dalla pioggia che non ha ancora smesso di scendere.
Per fortuna.
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Questo articolo lo trovate anche su fabionegri.com
Ricordo che conobbi Prince grazie a Deejay Television, in quel periodo passava il video di Kiss e confesso che inizialmente quella voce stridula, unica nel contesto di quel momento, mi dette quasi fastidio.
Quando ho scoperto Purple Rain invece, quella voce era già entrata dentro di me attraverso Sign of the Times.
Dall’87 (allora avevo 16 anni) ho iniziato a cercare in tutti i negozi di dischi della mia città i vinili precedenti, perchè dovevo conoscere tutto di Prince, tutto quello che mi ero perso precedentemente.
Quando nel mio piatto, la puntina è passata sui solchi del disco viola, ho avuto l’ulteriore certezza della grandezza creativa di quel genio che era già diventato il mio punto di riferimento musicale.
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