Abbiamo dovuto attendere sette anni per ascoltare un nuovo disco di Justin Timberlake e ora, a distanza di pochi mesi, eccone arrivare un altro. Si tratta di The 20/20 Experience 2 of 2, ed è considerato la seconda tranche di un progetto più ampio e multiforme, di cui la prima parte è stata il suo The 20/20 Experience pubblicato a marzo di quest’anno. Spontaneo pensare che questo disco possa essere il cestino nel quale Timberlake abbia gettato gli scarti originati dal primo. Un po’ come quei contenitori al supermercato dove si trovano le offerte a basso prezzo, ma che spesso nascondono delle vere e proprie gemme.
Se davvero i brani migliori sono stati scelti per sostenere il suo trionfale ritorno in classifica, questo The 20/20 Experience 2 of 2 rischia di partire in netto svantaggio nei confronti del suo predecessore. Fredde logiche da marketing, che sono immediatamente dimenticate dopo i primi ascolti. L’album non si merita assolutamente questi pregiudizi, anzi, grazie ad alcuni brani risplende più del primo. Tutte e tredici le canzoni – pur essendo attraversate da vibrazioni R&B, soul e rock – sono fortemente contaminate dal pop più moderno. Non potevamo aspettarci altro dal momento che stiamo parlando di uno dei pochi, se non dell’unico artista, che in questo momento sta disegnando i confini della popular music. Per Timberlake, ma soprattutto per i sui fedeli produttori Timbaland e Harmon, è un mondo ben conosciuto. Sanno esattamente come far musica e come suonarla per creare attrazione e conquistare il pubblico. Tutto è preciso e sotto controllo, a partire proprio dalla melodia. Abbiamo la dimostrazione pratica di come il beatmaker possa essere importante e decisivo, tanto quanto il cantante che ci mette la voce e la faccia. Inoltre, beat che vince non si cambia. Ecco spiegato come mai Gimme What I Don’t Now (I Want) e True Blood suonano talmente di vecchio che passano tranquillamente come due canzoni scartate non da The 20/20 Experience, ma addirittura da uno dei due primi album di Timberlake. Anche in Murder, interpretata in compagnia di Jay Z, la musica è contaminata da componenti orientali, un canonico marchio di fabbrica di tanti successi firmati da Timbaland, che trova comunque la voglia di sperimentare in brani come TKO e soprattutto in Cabaret, dove Justin Timberlake duetta in compagnia di Drake.
La bravura di Timbaland è ulteriormente confermata quando riesce a produrre basi come quella utilizzata per Only When I Walk Away, andando a scovare un brano strumentale di Amedeo Minghi intitolato Lustful (1972), per poi plasmarlo in maniera impeccabile per la voce di Justin Timberlake, che in questa circostanza diventa elettrica come la chitarra che lo guida per tutto il brano. Quella classica di chitarra è invece protagonista in Drink You Away, brano rock country, e in Not a Bad Thing, ballata da boyband anni ’90, ma la si apprezza in tutto il suo fascino nella ghost track Pair Of Wings, dove il nostro Justin dimostra, oltre al fatto di saper suonare lo strumento, anche di apprezzare e valorizzare la musica folk americana. Lo spirito del miglior Michael Jackson, di cui Justin Timberlake sembra ormai il degno erede, è presente fortemente anche in questo disco. Ascoltando Take Back The Night, il dubbio di chi stia cantando viene spontaneo: o Quincy Jones ci ha messo lo zampino oppure le recenti dichiarazioni di Timbaland, che confessa di avere tra le mani quello che doveva essere l’album prodotto per il rimpianto re del pop, sembrano poter essere confermate. Se poi in True Blood è possibile ascoltare la stessa macabra risata di Thriller, ogni dubbio è cancellato. La prova definitiva che Timberlake è ormai un artista completo la si ha con You Got It On e Amnesia, altre due bellissime ballate, con le quali riesce ad esprimersi nel suo modo meglio, sfoggiando la sua bravura e le squisite doti canore. Come nel precedente capitolo, anche qui abbiamo l’effetto extended-play-remix, ovvero il prolungamento quasi forzato di alcune tracce con finali interminabili. Se per alcuni potrebbe essere noioso o “strascicato” a noi, non dispiace affatto. Ci ricordano tanto i vinili versione remix che si acquistavano qualche anno fa, tanti anni fa.
Questa seconda “experience” non delude, trasuda di passione, induce al ballo ed incanta l’ascoltatore con le sue molteplici sfaccettature, espresse sotto forma di mutevoli forme musicali. L’alchimia creata nel disco è quella vincente e lo svantaggio di essere stato pubblicato nello stesso anno del suo predecessore non lo rende assolutamente qualcosa di già sentito, ne tanto meno uno scarto per i cestoni del supermercato.