Negli anni ’80 la normalità di Prince nel pubblicare dischi era diventata regolare come il ticchettio di un metronomo. In quegli anni, nel bel mezzo del periodo “Minneapolis Sound”, il nostro piccolo eroe raggiunge la sbalorditiva media di quasi un album l’anno o superiore se consideriamo anche quelli doppi o quelli prodotti per altri artisti. La sua era una creatività infinita, distribuita senza limitazioni. Una situazione inimmaginabile ai giorni nostri, non tanto per la genialità, che in Prince è la caratteristica principale, quanto per la libera possibilità nel pubblicare dischi a distanza di pochi mesi uno dall’altro, pur essendo direttamente vincolato ad una major discografica. Quelli però erano altri tempi e la Warner Bros, ben consapevole di aver trovato la gallina dalle uova d’oro, sfumate color porpora, ha sempre dato carta bianca a Prince sin dal 1978, anno in cui firmarono il loro primo contratto.
Il 1986 è l’anno di Parade, l’album che contiene successi come Kiss e Girl & Boys, realizzato per la colonna sonora del film “Under the Cherry Moon”. Il disco esce a marzo, ma poche settimane dopo la sua pubblicazione Prince inizia a registrare i brani per quello che sarebbe diventato il suo più importante album, ancora più di quel Purple Rain che tre anni prima l’aveva reso celebre in tutto il mondo. Stiamo parlando di Sign ‘O’ The Times.
Per capire da dove tutto è cominciato è necessario fare un passo indietro ed iniziare da un progetto chiamato “Dream Factory”. Questo doveva essere il titolo del quarto album firmato da Prince and The Revolution, dopo Purple Rain, Around The World In A Day e Parade. Nell’estate del 1986 Prince arriva a stilare ben tre diverse configurazioni, partendo da una versione in formato singolo LP per poi concludere con un doppio album composto da ben diciotto canzoni registrate con i The Revolution, la band che lo accompagna ormai dal 1984.
Purtroppo però, una volta terminato il tour mondiale di Parade, le cose non andarono nel verso giusto: i The Revolution a settembre si sciolgono, “Dream Factory” è abbandonato. Una volta solo, il nostro non si perde d’animo e nell’autunno di quell’anno si chiude in studio per incidere Camille, un album che Prince vuole pubblicare con lo pseudonimo di… Camille. Otto brani assolutamente funky, dai testi pepati tutti interpretati con una voce leggermente accelerata per depistare ogni possibile legame con il suo nome. Mente strana quella di Prince.
La Warner Bros programma la sua pubblicazione per il gennaio del 1987. Primo singolo, Shockadelica. Il progetto però è bloccato e a tutt’oggi non si conosce la causa. Prince non si arrende, ha talmente tanto materiale che riesce a consegnare alla Warner Bros un triplo dal titolo Crystal Ball. Con questo arriva sino fase di mastering del disco, ma a quel punto la casa di produzione si rende conto che pubblicare un triplo non è la mossa migliore, soprattutto dopo la deludente esperienza del film “Under the Cherry Moon”. Prince a malincuore, e con non poche ripercussioni per gli avvenimenti futuri, accetta la decisione della casa discografica e ridimensiona i progetti fino a lì realizzati per arrivare ad un definitivo doppio album: Sign ‘O’ The Times, pubblicato il 31 marzo del 1987.
Leggendo questo viene spontaneo pensare che Sign ‘O’ The Times sia una raccolta di brani scartati, difettosi o rivisitati. In parte lo è, ma la genialità e la bellezza del disco stanno proprio in questo, perché a tutti gli effetti il lavoro è incredibilmente disordinato: un doppio album variopinto, un cocktail di musica funky, pop, dance, hip-hop, jazz, R&B, soul e rock. Un microsolco ingarbugliato, come l’era in cui è stato concepito, ma che a suo modo rappresenta la migliore rivelazione di un genio assoluto della musica. Sign ‘O’ The Times esprime la maturazione e il perfezionamento di Prince che diventa una fonte d’ispirazione nel panorama musicale di quel fine decennio, in grado di influenzare anche il sound delle future generazioni di musicisti.
A parte poche eccezioni dove collabora con alcuni membri degli ex The Revolution, tutti i brani sono prodotti, composti, arrangiati, riarrangiati e suonati dallo stesso Prince. Le liriche forniscono immagini con contorni netti, assai nitide e con significati più marcati rispetto a quelli proposti nei suoi precedenti dischi. Troviamo l’amore, quello distratto in Slow Love e quello maturo in Forever in My Life, la libertà di Play in the Sunshine, il casino danzante di Housequake, il sesso ossessivo di It e Hot Thing, l’ambiguità delle relazioni personali in If I Was Your Girlfriend e Strange Relationship. In contrapposizione a questi temi abbiamo episodi legati ad un’analisi sociale più profonda come in Sign ‘O’ The Times o in The Cross.
C’è di tutto non manca nulla. La stessa copertina assume una certa importanza ed anticipa il contenuto. Un mezzo primo piano sfuocato di Prince che si allontana da un disordinato palco musicale color oro, posto in uno scorcio metropolitano, con una cadillac nascosta da una batteria. Sullo sfondo le insegne luminose di locali notturni. Un chiaro riferimento al caos e ai cambiamenti di fine decennio.
Si parte con quello che è stato il primo singolo estratto e cioè la title track Sign ‘O’ The Times. A Prince basta solo una drum machine, un’essenziale chitarra blues e la sua voce drammatica, priva di falsetti, adatta a descrivere il malessere di una società che vive in bilico tra delinquenza, droghe e malattie. Una chiara denuncia nei confronti della stupidità del mondo. Onore al video, considerato in quegli anni all’avanguardia: niente immagini, solo le scritte del testo della canzone che si susseguono a ritmo di musica, come i titoli d’apertura di un telegiornale.
Si prosegue con I Could Never Take the Place of Your Man, dove il rapporto di coppia è raccontato con un’irresistibile chitarra rock, e con It dove il sesso è morbosamente descritto a ritmo di tastiere e batteria. Abbiamo Housequake un terremoto casalingo capace di far tremare i muri con una miscela di hip-hop, funky e house music e Play In The Sunshine brano festoso che richiama il rock ‘n’ roll degli anni ’60.
Uno sguardo al passato recente lo si può fare prima con U Got The Look, cantata in coppia con Sheena Easton, un brano energico con cori che ricordano tanto il periodo di “1999” e successivamente con Strange Relationship che sfrutta una contagiosa melodia suonata con flauto, sitar e tamburelli che evocano le sonorità di Around The World In A Day.
Quello che più sorprende è che non c’è una precisa linea di collegamento tra i singoli brani. Un attimo prima si può ascoltare il funky di Hot Thing e subito dopo si passa ad un pezzo semplice e minimalista come Forever in My Life oppure da It’s Gonna Be a Beautiful Night si arriva ad una ballata come Adore. Il primo di questi due, registrato dal vivo con i The Revolution durante un concerto parigino, è un brano festoso, nove minuti di vera e propria musica funky. Il secondo invece è una poesia soul dove la tromba jazz, si dice suonata da Miles Davis, crea un’atmosfera sospesa e incontaminata. Abbiamo Starfish And Coffee che racconta la routine giornaliera con il ritmo di una filastrocca e The Ballad of Dorothy Parker dove l’incontro tra una giovane cameriera ed il cantante è raccontato su una base acid jazz.
If I Was Your Girlfriend, secondo singolo pubblicato, è un altro capolavoro che getta Prince nel caos sessuale, ma che in realtà mostra il suo profondo rispetto per le donne, fantasticando su come sarebbe la vita di copia se nel ruolo della ragazza ci fosse lui. The Cross è una canzone spirituale dove l’iniziale chitarra acustica si trasforma, con un continuo crescendo, in un’esplosione finale fatta di corde elettriche e batteria.
Per la serie “Scelti da noi… per voi” vale la pena soffermarci su un brano che, pur non essendo particolarmente rappresentativo all’interno dell’album, nella versione live assume un aspetto a dir poco affascinante. Forever In My Life non ti colpisce al primo ascolto, passa quasi inosservata, ma quello che vi suggeriamo è di ascoltare l’interpretazione realizzata dal vivo e riproposta nel film “Sign ‘O’ The Times”, ottimo concert movie che offre i migliori momenti del tour del 1987. La canzone, una vera e propria dichiarazione d’amore, è strutturata su una ripetitiva ed elementare base creata con una drum machine. Solo sul finale si affaccia una timida chitarra acustica. La versione presente nel film ripropone lo stesso beat, questa volta però accompagnato dalla chitarra acustica, suonata da Prince, per tutti gli undici minuti della sua durata. L’interpretazione, che ricorda quella di un gospel, è arricchita dagli assoli vocali della bravissima Bonnie Boyer e dello stesso Prince capaci di catturare, rilasciare e poi riprendere l’attenzione dell’ascoltatore con un’interpretazione commovente e superlativa.
Con Sign ‘O’ The Times Prince si conferma definitivamente un innovatore, uno dei più grandi interpreti della musica black e pop. Il disco non raggiungerà mai le vendite di Purple Rain, ma si meriterà critiche e recensioni molto lusinghiere, diventando uno dei migliori dischi di quell’anno.
La possibilità di raccontare la sua storia ci ha permesso di riascoltare il vinile, con più attenzione, arrivando ad apprezzare la capacità e la bravura di Prince nel riuscire a pubblicare sedici brani senza mai cadere in inutili ripetizioni e comuni scopiazzature, cosa assai rara al giorno d’oggi. Sign ‘O’ The Times è un album ricco di entusiasmo, allegria, musicalità, romanticismo e depressione allo stesso tempo. Dite che tutto questo sia troppo per un disco? Assolutamente no! È semplicemente il segno di Prince.
Un pensiero su “Sign ‘O’ The Times, il caos “perfetto” di Prince”