Il re Mida della musica rap, lo scaltro e furbo imprenditore ed ora anche padre apprensivo, è tornato. Non che fosse sparito, anzi di lui e famiglia non si è mai smesso di gossippare. Il ritorno di cui parlo è quello artistico. Sì, perché se tralasciamo Watch the Throne, l’album del 2011 firmato con l’amico Kanye West, è da quattro anni che non ascoltavamo un disco tutto suo.
Senza un singolo apripista ecco arrivare quasi a sorpresa Magna Carta… Holy Grail, un lavoro ambizioso sia sul piano musicale, grazie alle significative produzioni firmate da Timbeland, Jerome “J-Roc” Harmon e Pharrell Williams, le astute collaborazioni con giovani garanzie pop come Justin Timberlake, e le future conferme soul come Frank Ocean; sia sul piano commerciale, visto l’accordo con il colosso coreano Samsung che ha sborsato fior fior di dollaroni per l’esclusiva diffusione in anteprima dell’album attraverso apposita app per smartphone. Tutte scelte che definirei da gran paraculo!
Certo, ci si deve adattare al tempo corrente, non siamo più negli anni ’90 anche se una cosa Jay Z se la porta dietro da allora e fa bene a tenersela stretta: sto parlando del suo flow, del suo modo di intercalare nel fare rap e dell’inconfondibile voce. Lui non è uno sperimentatore come Kaney West, è più conservatore, ma la qualità costante dei suoi dischi, la capacità nell’incastrare parole e rime, e la dote nello scegliere le giuste produzioni musicali gli hanno permesso di guadagnarsi in fretta il rispetto della scena, aggiudicandosi l’appellativo del nuovo “re di New York”, come miglior rapper dell’East Coast (anche se io ci andrei calmo con definizioni cosi importanti).
Ma com’è questo disco? Se dovessi descriverlo con una sola parola si potrebbe usare “vivo”, perché il disco si rinnova brano dopo brano ed offre all’ascoltatore sia momenti pop che situazioni in pieno stile jiggaman, sia beat equilibrati che suoni geometrici da ascoltare a massimo volume.
Ad aprire il disco la voce patinata di Justin Timberlake che accompagna Jay Z in Holy Grail su una base firmata da Timbaland, così abile da riuscire ad utilizzare un sample di Smells Like Teen Spirit dei Nirvana. In Picasso Baby il basso che segna il tempo nella prima parte della traccia viene interrotto e sostituito dalla batteria per il finale. Sembra di ascoltare due canzoni differenti, quando in realtà si tratta della stessa traccia sulla quale Jay Z realizza un susseguirsi di rime che hanno riferimenti e sottili richiami all’arte contemporanea.
Dall’arte alla moda con Tom Ford, ennesimo esempio di perfezione creativa opera di Timbaland, che butta lì un beat da videogame anni ’80 talmente trainante che la voce di Jay Z scivola via come seta.
In FuckWitMeYouKnowIGotIt, con Rick Ross, ritroviamo l’original Jigga Man che riesce con estrema maestria a creare l’ennesimo artificio di parole e rime con allusioni al mondo italo-americano andando a riprendere frasi come “ciao bella” e citazioni dal film “Il Padrino”. Noi italiani non riusciremo mai a toglierci il cliché di “bravi ragazzi”…
Tra gli ospiti anche Frank Ocean, chiamato per il featuring nel quasi omonimo Oceans, un brano dove i due protagonisti raccontano come sulle acque degli oceani gli yacht dei ricchi afroamericani hanno preso il posto delle navi cariche di schiavi. Chiaro il parallelismo con la sua personale storia privata.
La tromba ed il pianoforte che troviamo in SomewhereinAmerica danno a questo pezzo sfumature old, quasi una colonna sonora per un film anni ’50. Da segnalare anche la festaiola BBC dove Jay Z invita quello che probabilmente è il vero re dell’East Coast rap, e cioè NAS. Qui è nuovamente il lavoro di Timbaland a rendere il brano degno di raccomandazione.
Non poteva mancare il duetto con l’affascinante moglie Beyoncè, in un brano da tutti acclamato come la “Bonnie & Clyde pt.2”. Stiamo parlando di Part. 2 (On The Run), sicuramente gradevole ed orecchiabile appositamente confezionata per le radio, ma sinceramente non paragonabile con la precedente. Come si dice, il sequel non è mai come il primo capitolo.
Alla figlia invece dedica Jay-z Blue dove arriva addirittura a scomodare l’immenso The Notorious B.I.G.
Curiosità per Crown, una traccia che ha lo stesso titolo e lo stesso intro di una canzone firmata da 50 Cent, e per Heaven, che contiene alcune liriche di Losing My Religion by R.E.M. Gli anni ’90 non li molla.
Con Magna Carta Jay Z si aggiudica la rivincita dopo quel Blueprint 3 (2009) che in parte aveva illuso le troppe aspettative. In questo album troviamo il miglior Jay Z che ci si poteva attendere. Sembra proprio non aver dimenticato le sue origini. Lo stile che è riuscito ad affinare in questi anni gli permette di sguazzare nelle classifiche, di scrivere da solo le regole che delimitano i confini del suo mondo, anche se il più delle volte questo stesso mondo sembra infinito. Jay Z è un punto di riferimento, una garanzia. Album da comprare senza chiedesi il perché.